GLI OCCHI DELL’IGNORANZA
(di: G. Wilford Hathorn)
Oggi ho guardato in faccia l’ignoranza,
non per la prima volta, e nemmeno per l’ultima. Questa nuova prigione dove ci
hanno spostato è nella contea vicina a quella in cui sono cresciuto; così, dato
che le prigioni sono la maggiore fonte di occupazione della zona, ne segue che
qui di dentro ci lavori gente che ho conosciuto.
Ieri notte mi ha svegliato una guardia
puntandomi una pila in faccia, e mentre cercavo di vedere chi fosse, mi ha
chiesto “Come ti chiami?”
Ho pensato “dannazione, si può pensare che
qui dentro abbiano una lista da qualche parte con su scritto il mio nome?”
“Hathorn”, ho risposto.
“Vieni dalla Trinity County?” ha chiesto. “Sì”.
Se l’è segnato, ha girato la pila e se ne è andato. Ma uscendo ho
visto la sua faccia. Una corrente di repulsione e indignazione perché sono
vivo. Non ho mai conosciuto questo ragazzo, che sembrava avere poco più di
vent’anni, finchè lui, dopo il passaparola che vedo girare qui dentro da 15
anni, è venuto a guardarmi da vicino, come al microscopio. Non per capire, ma
per guardare un’attrazione da circo. Non merito di vivere, pensa che dovrei
essere morto, perché qualcuno nella catena che ha sentito gli ha detto che
Hathorn ha fatto qualcosa di sbagliato.
E’ interessante pensare che tutti fanno
cose brutte nelle loro vite, ma solo quando le sue azioni lo portano in
prigione è dichiarato incorreggibile, una zecca della società, guardata con
sdegno. La gente fuori fa un sacco di errori, fuma droga, si ubriaca, sfascia
le macchine, ogni tanto magari spara a qualcuno, ma se riescono a non finire in
prigione sono perdonati e gli è permesso di coesistere pacificamente con il
mondo intorno. Possono entrare nelle chiese e cantare gli inni, e trovare dei
posti importanti prima o dopo. Ognuno, dopo tutto, fa degli sbagli e può avere
bisogno di una mano.
Ma non se si è stati in prigione,
specialmente nel braccio della morte. Questa è tutta un’altra storia. Se si è
fuori, pensano “tutti possono sbagliare, ed avere una seconda possibilità”. Se
si è dentro “Ecco qualcuno che si può prendere a calci quando è a terra”. “Già,
ha sbagliato”, pensa la gente. “non me ne importa niente se era la sua
intenzione. Deve crepare! Quella merda avrebbe dovuto pensarci prima di fare
quello che ha fatto, e di chiedere perdono”. Normalmente il perdono si chiede
dopo avere sbagliato, no?
Mi sembra che il Signore abbia detto di
perdonare dopo lo sbaglio, credo. Ha ammesso che la gente possa deviare dalla
retta via. E anche se uno non crede in Dio, la nostra umanità dovrebbe
ammettere il perdono, perché non possiamo pensare di non migliorare il nostro
livello di umanità e come una pietra tombale rimanere rigidi e immobili.
Stanotte un’altra guardia è venuta alla
porta della cella. “Beh, che sta facendo, Mr. Hathorn?” ha chiesto, con
sarcasmo. Ho posato il mio libro per guardare in faccia chi mi stava parlando.
Ho visto un altro ragazzo, e ho riconosciuto il suo nome sul cartellino; quando
ero ragazzo avevo più volte bevuto una birra con i suoi cugini e i suoi zii. Ho
detto: “Ehi” Sei il figlio di D.?”
Mi ha guardato come fossi un sacco di
immondizia, indignato dal fatto che gli avessi parlato con tanta
familiarità. Mi ha guardato fisso,
potevo vedere chiaramente il suo sguardo di odio, e mi ha risposto “No. Mio
padre si chiama F.”, come se non avessi nemmeno diritto di chiederglielo.
“Sei andato alla scuola C.?” ho chiesto,
dove mi ero diplomato io.
“Yeah. Venivo un paio d’anni dopo M.” Mi ha guardato con ancora più odio, e ho
capito: M. era una vittima del mio crimine.
“Volevo solo dare una faccia a un nome”,
ha continuato. Aveva in mano una fetta di pizza. Ne ha preso un pezzo, lo ha
masticato, me l’ha sputato davanti e se ne è andato, dicendo “Beh, a più
tardi”.
Ignoranza. Ecco un altro ragazzo a cui non
ho fatto niente, che non sapeva nemmeno della mia esistenza fino a stanotte, e
si è fermato per mettere una faccia a un nome. Per dirmi che lui è una guardia
e io un prigioniero, e il suo controllo su di me è assoluto. Come gli altri
ragazzi, non sa niente di me se non quello che ha sentito da altri, e sulla
base di questo, senza aver mai parlato con me o con i miei parenti, ha già dato
il suo giudizio e ha stabilito che devo morire.
Parlando di crimine e punizione, Kahlil
Gibran disse “Spesso vi ho sentito parlare di qualcuno che ha sbagliato come se
non fosse uno di voi, ma un estraneo, un intruso nel vostro mondo. Ma vi dico
che come la grazia e la giustizia non possono volare più in alto di della parte
più alta che c’è in voi, così il male e
il dolore non possono sprofondare più in basso della parte più bassa di voi. E
così come una foglia non diventa gialla senza che il resto dell’albero non lo
sappia, così quelli che sbagliano non possono sbagliare senza la volontà
nascosta di tutti voi”.
Se fossi stato al suo posto, davanti a uno
che aspetta di morire, specialmente uno della mia zona, che era stato amico dei
miei parenti, non l’avrei mai guardato con occhi così carichi di disprezzo,
trasmettendogli chiaramente il messaggio che lo avrei voluto morto per
migliorare la società. Non mi sarei mai mostrato implicitamente soddisfatto
della sua disgrazia, o almeno avrei provato a dirgli una parola, a provare ad
ascoltare, per vedere cosa gli era successo per arrivare a commettere un
crimine terribile, magari gli era successo qualcosa, magari stava male.
La nostra società abituata al materialismo
è diventata indifferente alle cause che determinano le azioni di chi delinque.
Nessuna spiegazione è sufficiente. Vogliamo solo il sangue di chi ha commesso
il crimine, vogliamo solo dimenticare qualunque tragedia che si svolge sotto il
nostrano naso, che possa aver portato un uomo a uccidere, e speriamo che niente
ci porti mai a guardare indietro, se rimaniamo fermi tutti i problemi
spariranno da soli.
Salvo che da qualche parte, un orologio
sta ticchettando. Ticchettando contro un uomo nel braccio della morte, ma anche
contro quelli che non hanno pietà di lui. Il giorno del giudizio verrà per
tutti, e smuoverà i potenti dai troni, e gli orgogliosi cadranno a terra. E
quando quelli che si credono giusti chiederanno il loro posto al tavolo dei
giusti e non lo otterranno, dovranno mettersi in ginocchio e chiederanno un
atto di pietà – quella che loro non hanno avuto – e saranno perdonati.
Poco si conosce del cuore umano, tranne
due cose: la capacità di amare e la capacità di odiare. Fra questi opposti alla
fine l’amore vince, ma quanto dolore, risentimento e morte sono causati intanto
dall’odio! Amare è di sicuro la via più difficile, ma troppo spesso in mezzo al
nostro dolore – come Gibran dice, soli e ignorati – siamo ancorati alla via più
facile, impegnati ad assicurare che l’oggetto del nostro odio rimanga fuori dai
cancelli della pietà, perché siamo nella miseria, e vogliamo che qualcun altro
condivida il nostro stesso dolore.
Un’altra guardia, una donna, è arrivata
stamattina a ritirare le nostre divise, la biancheria e le calze. E’ stata
subito raggiunta da un uomo, e insieme hanno ritirato i vestiti puliti dal
distributore e hanno cominciato a passarceli attraverso le fessure delle celle.
Ho preso il mio, sono tornato al fondo della cella e stavo pensando a una cosa
che mi sono sempre chiesto, quando il mio vicino di cella ha battuto contro il
muro, chiedendo: “Ehi! Hai sentito cos’ha detto quella troia?” e mi sono
scosso.
“No”, ho risposto, mentre da fuori lo
speaker del corridoio bippava come un sonar di un sottomarino, un rumore che fa
ogni 10 secondi. Il mio vicino ansava
prima di continuare. “Ha detto che dovrebbero darsi una mossa e ammazzarci
tutti! Così non dovrebbero perdere tempo a distribuirci quei dannati vestiti!
Qualcuno dovrebbe prenderla a calci!”.
La guardia era lì vicino che continuava a
ordinare I vestiti, ignorando stoicamente l’opinione del mio amico. La
guardavo, i capelli pettinati a coda di cavallo, il trucco, e mi chiedevo cosa
la spingesse a stare qui dentro e perdere le sue energie migliori augurandosi
la morte di persone che nemmeno conosce.
Poi ho visto il suo sguardo, e mi è
tornato in mente un episodio della mia infanzia.
C’era un mio vicino di casa che aveva un
cane, Spotty, me lo ricordo con il suo pelo lungo, bianco e marrone, era il
cane più simpatico che conoscecci, mi piaceva giocare con lui, nasconderci in
mezzo ai cespugli, sentire l’odore di mimose e cercare di prendere le farfalle.
Il mio vicino era una persona normale, aveva un buon lavoro da meccanico ed era
gentile con me e mio padre, che qualche volta era suo cliente. Però non andava
d’accordo con Spotty, sembrava che gli venisse tra i piedi tutte le volte che poteva
dare più fastidio, ma voleva solo giocare. Qualche volta quando aveva bevuto
qualche birra di troppo o voleva vedere la partita gli dava una botta in testa
così forte che il cane andava a nascondersi fino a quando non lo vedeva
andarsene a letto insieme alla sua moglie obesa.
Un giorno in cui era arrabbiato per
qualcosa, e il cane non aveva obbedito al comando di sedersi, prese un bastone
dal prato e si mise a picchiare il cane così forte che i suoi guaiti si
sentivano per tutto il vicinato, anche se nessuno fece niente, visto che il
cane era suo e quindi nessuno si mette in mezzo se decide di picchiarlo. Come
per i bambini. Poi quando già perdeva sangue dalla bocca e dal naso, gli ordinò
di nuovo di sedersi, e il cane rassegnato si sedette.
Aveva uno sguardo simile a quello della
guardia stamattina. Come se ne avesse prese tante dal mondo, e non ci potesse
fare niente. Da qualche parte, in passato, qualcuno l’ha attaccata e costretta
all’obbedienza. Lei magari ha tentato di reagire, e le è andata sempre peggio.
Vive nella paura di essere colpita ancora, nascondendo i suoi segreti e la sua
disperazione, e la riversa su di noi, sperando che ci uccidano.
Ignoranza.
Quando mi è passata di nuovo davanti, non
riuscivo ad essere arrabbiato. Pensavo al cane, e provavo un senso di simpatia
per lei. Ho sorriso alla guardia che ci vuole morti, cercando di comunicarle la
mia comprensione umana; ha esitato un attimo, dato che uno sguardo di simpatia
è qualcosa al quale non è abituata.
E’andata oltre, dicendo al suo collega che
probabilmente mentre la guardavo mi stavo masturbando.
From the Polunsky Unit journal